L’Ospedale e il convento di S. Antonio Abate. Nella zona del vecchio Brolo dell’arcivescovo, tra altri ospedali e brefotrofi, sorgeva quello del Cerro (poi detto di S. Nazaro in Brolo), fondato nel 1127 per testamento di Ruggero di Cerro per la cura di un’infiammazione, epidemica e letale, che in quei tempi faceva numerose vittime e che veniva chiamata “fuoco sacro” o “fuoco di S. Antonio”, una misteriosa malattia della pelle giunta dalla Palestina (anche se il nome è lo stesso, non è detto che il “fuoco di S. Antonio ” di quei tempi corrispondesse alle moderne forme di herpes). Ospedale, chiesa e, di conseguenza, anche la contrada furono definitivamente intitolati al Santo quando giunsero dalla Francia, nel 1272, i frati Antoniani di Vienne, per costruire un convento e per assumersi la cura dell’ospedale: vuoi perché la gestione se ne fosse dimostrata troppo difficoltosa per i milanesi, vuoi perché era diffusa la fama di quell’ordine ospitaliero, fondato due secoli prima in Francia da un nobile di nome Gaston proprio per dedicarsi alla cura del “fuoco sacro”; l’ordine, approvato da papa Urbano u nel 1095, si ispirava a S. Antonio Abate. Dal 1416 questi monaci ottennero un singolare privilegio dai Visconti, quello di far liberamente pascolare una mandria di porci di loro proprietà nella zona attorno al convento e all’ospedale, affidandone il sostentamento alla carità pubblica: abitudine clinicamente riprovevole, però, Medioevo a parte, le zone agresti non mancavano neppure dentro le mura, magari in mezzo a rovine di palazzi romani. I frati poi non allevavano «l’immondo quadrupede» per far quattrini o per i prosciutti, secondo le maligne insinuazioni di Dante Alighieri, ma per utilizzarne il grasso come unguento contro le infiammazioni. Due le conseguenze pratiche: i frati furon chiamati dai milanesi «de Sant Antoni del Porscell» (cioè del porco) e l’innocente animale diventò per il popolo addirittura emblema del Santo (non mancò neppure chi, nonostante le minacce di scomunica e quelle piú concrete di castighi ducali, ogni tanto faceva scomparire qualche bestia). Ma la nascita della Cà Granda pose fine all’attività di quei buoni frati i quali, dopo l’apertura dell’Ospedale sforzesco, se ne tornarono in Francia. Partiti gli Antoniani, il convento fu trasformato in “commenda” e come tale fu gestito dai Trivulzio e dai Landriani, che lo demolirono conservandone però i chiostri e l’ospedale fu adattato ad abitazioni. Nel 1576 S. Carlo riscattò la commenda dai Landriani per 13.000 scudi, e affidò chiesa e convento ai chierici Teatini di S. Maria presso S. Calimero (oggi scomparsa); questi riattarono i chiostri per proprio uso e rifecero la chiesa. Nel convento i Teatini tennero scuola e nel 1662, pare sotto gli auspici di S. Andrea Avellino, vi fu introdotta anche l’Accademia dei Faticosi, il cui compito istituzionale era quello di sviscerare e delucidare la morale aristotelica; pare che il nome derivasse dalla difficoltà del compito che s’erano imposti. Soppressi nel 1798 i Teatini, il convento diventò magazzino militare; ma un anno dopo gli austro-russi nella loro breve ma odiosa occupazione si misero a precorrere butteri e cow-boys: infatti «istituivanvi un ufficio di polizia con carceri per rinchiudervi quei milanesi che, per essere ritenuti repubblicani, venivano accalappiati per le vie di Milano con laccio a nodo scorsoio lanciato dagli stessi russi stando a cavallo. Inviavansi poi nelle prigioni di Cattaro (Montenegro)» [Anselmi, 1932]. Partiti loro, restò il carcere, detto Giudicatura Correzionale Politica; nel 1860 fu nobilitato in Regia Pretura, di rinomata sporcizia, che sopravvisse fino agli anni Trenta. Fu qui che Luca Beltrami e Luigi Conconi, entrambi architetti e pittori, subirono un processo verso la fine del secolo scorso per il mancato pagamento della tassa sui professionisti per l’uso del metro. Con bella faccia tosta, i due, «coll’appoggio amichevole di tutto il Foro milanese» (anche questo ci dice quanto siano cambiati i tempi) andarono a sostenere che come professionisti non avevano bisogno del metro; Beltrami disse di prender le misure in braccia milanesi e Conconi dichiarò di misurare a occhio. Il giudice prudente, ma sospettando una presa in giro, voleva ordinare una perizia d’ufficio; ma «i convenuti» rinunciarono a proseguire la causa «e tutto fini, prosaicamente, tra risotto barbera e ossibuchi, in un ristorante vicino» [Cassi Ramelli, 1971].